Quantcast
Channel: Serialmente » supereroi
Viewing all articles
Browse latest Browse all 15

Agents of S.H.I.E.L.D. – 1×03 – The Asset

$
0
0

“Cool. But terribile”

Che è, grossomodo, quello che penso di Agents of S.H.I.E.L.D. Ne ha già parlato Andrea nella sua recensione, questa è una serie che si porta dietro un bagaglio stracolmo tra grandi aspettative, grossi mezzi di produzione ed enormi pretese. Però, bisogna essere onesti e ammettere che quello che c’è nelle nostre teste di amanti della tv e di Whedon ha gonfiato a dismisura le aspettative e “falsato” il giudizio sui primi episodi. Una serie con la partecipazione produttiva dei Marvel Studios significa una serie con i soldi dei Marvel Studios (non tutti, ma i loro spiccioli bastano a far bestemmiare gli addetti agli effetti speciali e alla computer grafica di Once Upon a Time). Aggiungi il nome di Joss Whedon che ritorna in tv dopo tre anni, dopo i 26/27 di fallimento che fu Dollhouse, dopo successi di pubblico e di critica come “The Avengers” e “Much Ado About Nothing“, e cominci a sperare in una serie che non può essere e non può succedere. Non in queste condizioni, non su questo canale, non con queste ragioni, non dopo che ci rifletti un attimo e ti ricordi che la tv non è fatta della stessa materia di cui sono fatti i sogni. Non per dilungarmi in un discorso che c’entra poco con l’episodio (lo farò lo stesso, però), ma Agents of S.H.I.E.L.D esiste per una ragione precisa: espandere l’universo su schermo della Marvel e, soprattutto, espanderne il pubblico. Sappiamo che la tv raggiunge un pubblico che eguaglia e supera quello del cinema, lo sa anche la Marvel e l’intento è quello di pigliare tutto quello che può pigliare, da un mezzo e dall’altro. Al cinema c’è riuscita sfruttando la più rodata delle formule statunitensi contemporanee, quella del blockbuster. Alla televisione ci riuscirà con la formula equivalente. E quindi, episodi autoconclusivi, verticalità centellinata, attori improbabilmente e fastidiosamente di bell’aspetto e di giovane età, estetica pulita e ordinata, temi semplici e immediati, sarcasmo, ironia e gag innocue, tanta azione, poco dialogo, il mistero. Perché, alla fine, ‘sta serie la si guarda per sapere come è possibile che Coulson sia vivo. E perché Skye è strafiga.

Che poi questo, per una fetta di pubblico, sia tutto ciò che di brutto e superato c’è in tv non conta nulla. In generale, questa fetta di pubblico non conta niente per il broadcasting (e conta fino a un certo punto per il via cavo). Abbiamo sbagliato a credere che questa sarebbe potuta essere la serie creata da un nerd amante dei fumetti per i nerd amanti dei fumetti. Questa serie è stata creata per tutti gli altri, per tutti eccetto i nerd amanti di fumetti. Che gliene frega ai Marvel Studios di fare uno show per gli appassionati di comics? Ché tanto loro lo show lo guardano lo stesso, anche solo per odiarlo o per sottolineare tutte le imprecisioni, le differenze e gli errori. Ché tanto quelli i film li hanno già visti, non è mica per loro che si spargono riferimenti qua e là. Ché tanto per quelli ci stanno già i comics, quelli di carta. È lo stesso ragionamento che sta dietro ai film supereroistici di questi anni: sono stati fatti per attrarre pubblico altro, perché il pubblico del fumetto va assottigliandosi sempre più. E ci sono riusciti, ad attrarlo: a vedere “The Avengers” c’è andata gente che i fumetti li usa per asciugare i vetri della macchina durante il lavaggio domenicale; a vedere “The Avengers” c’è andata gente che sognava di perdere la verginità con Scarlett Johansson. Economicamente parlando, per i Marvel Studios sono più importanti loro di uno come me, che la verginità sognava di perderla, tra le altre, con Selina Kyle. Ed è bene così, perché sono soldi per un’industria che sta morendo. E lo stesso bene farà Agents of S.H.I.E.L.D., che dopo il picco di ascolti del pilot è sì calato, ma più che fisiologicamente e mantenendo numeri importanti. Il giocattolo funziona, è destinato a funzionare.

Ultima parentesi su questo argomento (che ormai non so più quale sia): lamentarsi di questo show perché non è quella roba bella, complessa, profonda e innovativa che ci aspettiamo da Whedon non ha senso. È come criticare la (momentanea) trilogia di Iron Man perché non è come la trilogia del Cavaliere Oscuro (che può piacere o non piacere, ma ha raccontato il supereroe al cinema in maniera, se non migliore, quanto meno fresca), perché tratta temi, storie e personaggi in maniera più semplice, più immediata, più spensierata. È mischiare le pere con le mele, questo. Siamo d’accordo che i film Marvel sono giocattoli, giusto? Ben interpretati e ben prodotti, ma giocattoli, intrattenimento fatto bene, ma niente di particolarmente complesso, profondo e/o innovativo*.  E allora perché ci aspettiamo dalla serie tv i pregi che i film non hanno, pur sapendo che i soldi, i nomi e i fini dietro a questa sono gli stessi? Cacchio, l’operazione è la stessa. Il nome di Whedon non basta a eliminare questi fattori, è solo un ingranaggio in una macchina gigantesca che ha deciso di diventare ancora più gigantesca. Credete che Whedon, con “The Avengers”, abbia fatto quello che gli paresse? Certo che no. Quando Whedon fa quel che gli pare, fa “Much Ado About Nothing”, a casa sua, con gli amici suoi.

* Per dire, la caratterizzazione psicologica dei supereroi cinematografici è indietro di 35 anni rispetto a quella dei supereroi fumettistici. Il fumetto, in quei 35 anni, ha subito trasformazioni profonde (negli autori, nella scrittura, nel disegno, negli editori, nel pubblico) che hanno portato il dopo a essere irriconoscibile rispetto al prima. Il cinema è ancora allo stato infantile, eppure già si comincia a intuire la necessità di indagare il supereroe in altra maniera (il Batman di Nolan). Eppure, non si sente nessuno lamentarsi del fatto che Stark, Rogers, Banner, Romanoff, Barton, Thor, Loki e Fury siano stilizzati, e lo sono tanto e quanto Coulson, Ward, May, Simmons, Fitz e Skye. Perché? Perché al cinema ti puoi permettere quel cast lì. Perché, citando Jay Leno da Louie, “you can’t be the funny guy seven days a week”. Perchè quello che piace e riesce una volta ogni X anni non è detto che piaccia e riesca una volta a settimana.

Mi incuriosisce il fatto che prodotti concepiti alla stessa maniera e con lo stesso fine come i film e la serie siano recepiti in maniera tanto diversa. In fondo, a “The Avengers”, se togli supereroi e superpoteri, gli interpreti, lo scrittore-regista, il budget e lo fai durare 22 episodi invece di 2 ore, cosa resta (è un’ipotesi assurda, lo so, ma fate finta di accettarla)? Resta Agents of S.H.I.E.L.D.. Sarà che la tv ci ha abituato bene in questi anni, e quindi un prodotto tanto atteso e poi tanto ordinario delude. Sarà che i supereroi al cinema hanno fatto talmente pena che è bastato niente per far gridare al miracolo di fronte a quelli che sono, in fondo, dei buoni film ma niente di più. Sara quel che sarà, ma non riesco a capire come abbiamo fatto a costruirci aspettative tanto enormi per una serie che sapevamo che serie sarebbe stata.

Madonna quanto mi sono dilungato. L’episodio, dai. Non c’è troppo da aggiungere a quel che si è già detto nella prima recensione: la serie sta prendendo una forma precisa, nella struttura, nei personaggi, nell’orizzontalità, nella verticalità. Questa settimana la missione degli agenti consiste nel salvare Franklin Hall (l’asset del titolo), ex-insegnante di Fitz-Simmons e pioniere nella ricerca sul gravitonium, raro e pericoloso elemento chimico. Detto professore è rapito da Ian Quinn, statunitense naturalizzato maltese per ragioni fiscali, entrato in possesso del gravitonium e deciso ad affidarne l’uso a Hall. Siccome le forze armate maltesi hanno l’ordine di sparare a vista sugli agenti dello S.H.I.E.L.D, per tentare di salvare il professore si decide di far infiltrare Skye alla festa tenuta da Quinn nella di lui residenza isolana, sfruttando l’invito ottenuto dalla ragazza grazie alle sue abilità di hacker e alla sua affiliazione con The Rising Tide.

L’appunto che sorge spontaneo è: se i soldati maltesi hanno l’obbligo di sparare sugli agenti dello S.H.I.E.L.D., basta non identificarsi come agenti dello S.H.I.E.L.D. e il gioco è fatto. Si chiama spionaggio. A meno che i soldati non sparino a chiunque, nel dubbio.

La trama verticale non è niente di che, con certe punte di superficialità (la semplicità con cui Skye si infiltra nella villa di Quinn, la semplicità con cui riesce a fuggire una volta scoperta) o di banalità (“But they’re the nice big brother who stands out for the helpless little brother, who’s getting beat up because he ate a piece of cake that [...]“, si salva con quel pelo di ironia alla fine) che non possono non infastidire. Mi rendo conto che in una serie come questa non ci si può concentrare troppo su queste cose, considerando che l’impossibile è il loro mestiere, che ogni missione dello S.H.I.E.L.D. sarà una missione impossibile e che tre su sei dei membri del gruppo sono tipi addestrati a compiere missioni impossibili in modi impossibili. Tutto giusto, e infatti non ci sarebbero stati problemi se a fare quello che ha fatto Skye ci fosse stato Coulson, Ward o May. Ma c’era Skye. D’accordo la sospensione dell’incredulità, ma se a compiere una missione del genere ci riesce pure una che a stento riesce a colpire il sacco da boxe senza sembrare una pluricentenaria con le braccia sbriciolate dall’osteoporosi, la necessità e l’unicità degli altri membri del gruppo è messa a repentaglio. Per non parlare dell’impossibilità della missione.

In realtà, tutto è un espediente del racconto per testare e confermare la sincerità delle intenzioni di Skye come agente e per metterla al centro del primo di quella che, probabilmente, sarà una striscia di episodi dedicati all’approfondimento di ogni agente. Del team messo insieme da Coulson, Skye è stata rappresentata come la mina vagante, l’ hacktivist simil-Wikileaks/Anonymous che non può accettare “a giant bureaucratic organization who’s tracking your every move”, l’opposto che dovrebbe sottolineare le contraddizioni dell’agire dello S.H.I.E.L.D e restituire un ritratto dell’agenzia più complesso e adulto.

Dovrebbe.

Anche l’eroina sarcastica e riluttante entra a tutti gli effetti a far parte del team, rispettando l’archetipo del solitario diffidente che, lentamente, scopre la casa e la famiglia che non ha mai avuto/ha perso in un gruppo di (a loro volta) solitari che scoprono la casa e la famiglia che non hanno mai avuto/hanno perso. Nonostante l’interpretazione mediocre, Skye è il membro del team con più potenzialità: mentre tutti gli altri sono fin troppo inquadrati e definiti dal loro ruolo (i soldati con certe caratteristiche fisiche e psicologiche, gli scienziati con altre), il suo essere un outsider tra gli outsider le permette di mantenere quel briciolo di indefinito che è la base della trasformazione. Nonostante questo episodio, che sembra annullare le “complessità” del personaggio, c’è ancora il finale della puntata precedente a foraggiare i dubbi sulle reali intenzioni della ragazza. Anche se il prosieguo di questa sottotrama è già scritto, aiuta pensare a un personaggio (oltre Coulson) che abbia da raccontarsi, specialmente se si considera la povertà già intuibile negli altri (Ward che fa il soldato perché il fratello maggiore lo picchiava no, per piacere. Ma negli Usa scelgono di fare il soldato solo quelli con l’infanzia difficile e quelli che loro papà era un soldato, loro nonno era un soldato, etc.?).

La parte migliore dell’episodio (oltre alle scene d’azione e agli effetti speciali in generale) è il confronto tra Coulson e Hall, un dialogo discreto e un finale soddisfacente che ci raccontano un Coulson più freddo, razionale e realistico di quello del “don’t ever tell me it’s impossible”. Non credo che andremo mai oltre questo limite, l’ambiguità e la complessità morale non mi sembrano nelle corde e nei desideri di questo show. Uno dei fattori che contribuiscono a rendere Agents of S.H.I.E.L.D un prodotto allo stesso tempo infantile e anziano è il suo approccio alla moralità. I personaggi sono inchiodati agli estremi del segmento Bene-Male, e difficilmente si sposteranno. In un’epoca di televisione in cui i più amati e acclamati sono gli antieroi, i Gregory House, i Don Draper, i Tony Soprano, i Walter White, i Jax Teller, i Dexter Morgan, i Raylan Givens e i Boyd Crowder (solo per restare nel recente e in America), questo approccio appare superato. Il punto è che appare così a quelli che guardano quelle serie con quei protagonisti lì, che trasmettono su quei canali lì, con quelle libertà lì e quei pubblici lì. Agents of S.H.I.E.L.D non gioca in un altro campionato, gioca un altro sport: lo sport dei Revolution, Revenge, Once Upon a Time e Arrow. Qui si sta parlando di un tipo di televisione che magari non ci piace quanto l’altro, ma che esiste e conta, che ha delle regole e un pubblico. Un pubblico enorme, talmente enorme che un episodio qualunque di NCIS fa il doppio degli spettatori del finale di Breaking Bad. La Marvel punta all’enormità, e per puntare all’enormità deve fare… esattamente quello che sta facendo con Agents of S.H.I.E.L.D., che tutto sommato è uno show onesto con se stesso e con il pubblico, che ha la sola pretesa di non far annoiare nessuno e di farsi guardare da tutti (falla facile).

Ok.

Note a margine e curiosità

  • L’intervista di Clark Gregg al Jimmy Kimmel Live (parte 1/parte 2)
  • La serie è stata confermata per una stagione completa da 22 episodi
  • Un riassunto del panel della serie al New York Comicon
  • Intervista a Jeph Loeb, capo di Marvel TV, e a De Caestecker (Leo Fitz) e Elizabeth Henstridge (Jemma Simmons)

L'articolo Agents of S.H.I.E.L.D. – 1×03 – The Asset sembra essere il primo su Serialmente.


Viewing all articles
Browse latest Browse all 15

Trending Articles